giovedì 28 novembre 2013

Domande esistenziali ai motori di ricerca...



Ci sono cose, costumi, eventi che diventano simbolo e specchio di un secolo e di una società in particolare.
Per la generazione dei sessantottini quei simboli e specchi erano il rock e le minigonne, per noi sono Google e i social network .
Ma qui non voglio tanto parlare del nostro sistema sociale interamente digitalizzato (chè l'hanno già fatto in tanti, molto più bravi di me), ma piuttosto parlare di lui, google, confessore e oracolo del nuovo millennio.
Nell'antica Grecia, uno dei ruoli più importanti della società era occupato dagli oracoli, misteriose figure che si riteneva fossero in contatto con gli dei e capaci di prevedere il futuro e rispondere a domande che turbavano l'animo.
Il più eminente, tra questi oracoli, era senz'altro quello di Apollo a Delfi, in cui la sacerdotessa Pizia dava oscuri responsi a chiunque le si presentasse davanti.
Con l'avanzare della società (e del cinismo) alla fine si venne a scoprire che gli oracoli erano essenzialmente dei tizi strambi che facevano uso di sostanze stupefacenti (praticamente precursori degli hippies) e che davano responsi che potevano essere letti in maniera ambivalente.
Sembra ironico, quindi, che un popolo intelligente come i greci si affidasse a figure del genere per porre domande importantissime, che spesso riguardavano questioni di vita o di morte.
Eppure, a pensarci, anche in una società avanzata come la nostra, straboccante di cinismo e quasi completamente priva di religiosità, anche noi spesso ci affidiamo a degli oracoli, con modalità e nomi diversi certo, ma con la stessa speranza, quella di avere risposte.
Nel terzo millennio, Google è la nuova Pizia; invece della salvia usa i logaritmi e non c'è bisogno di un pellegrinaggio per assicurarsi i suoi servigi; basta un collegamento adsl flat al modico prezzo di circa 30€ al mese.
Ma cosa chiediamo, noi, al nostro personale oracolo? E, soprattutto, le risposte che ci dà sono veritiere o un po' posticce come quelle degli antichi oracoli?
Basta una ricerca anche superficiale per rispondere alla prima:
"Come fare l'amore."
"Come baciare."
"Come farsi crescere le tette."
"Come diventare più alti."
"Come far innamorare qualcuno."
"Come guadagnare."
"Come essere felici."
Basta inserire la parola come e aspettare che il completamento automatico ci mostri un mondo abbastanza agghiacciante d'insicurezze e imbarazzanti disagi.
Quello che chiediamo a google è sostanzialmente quello che ci vergognano di chiedere ai nostri amici. Sono quelle cose che ci turbano tanto ma che abbiamo paura vengano considerate stupide (principalmente perché viviamo in una società ipocrita, dove abbiamo tutti alla fine più o meno gli stessi problemi ma mai ad ammetterlo).
Google, come gli oracoli, viene considerato una figura a parte, che non ci giudica, che è tenuto ad ascoltare le nostre paranoie perché fa parte del suo ruolo.
Ma, del resto, anche google, nella maggior parte dei casi, dà risposte quantomeno incomplete o sibilline.
Quando, anni fa, la mia prof. di Italiano mi disse che Wikipedia non era affatto attendibile ci rimasi malissimo, quasi mi fosse crollato un mito eppure andando a controllare, mi resi conto che aveva ragione.
È quindi tanto emblematico quanto ironico che solitamente il primo risultato visualizzato da google sia proprio wikipedia o nella peggiore delle ipotesi persino yahoo answer (regno indiscusso delle domande imbarazzanti a cui ho accennato prima).
Ma, a questo punto, la domanda è d'obbligo, cosa spinge membri d'una società così avanzata a porre domande imbarazzanti ma spesso importanti a perfetti sconosciuti piuttosto che ad amici fidati?
Non può essere solo la paura di essere giudicati.
Poi mi sono ricordata di quello che diceva Pier Paolo Pasolini sullo strapotere del mezzo televisivo e cioè che, sostanzialmente, qualsiasi stronzata venisse detta in televisione, anche dall'ultimo degli ignoranti, veniva immediatamente considerata affidabile per il semplice fatto che venisse detta in televisione.
Ora, proprio quando sembrava fossimo prossimi a liberarci della dittatura della televisione, abbiamo trovato un nuovo oracolo o meglio, una nuova figura semidivina a cui rivolgerci per la risoluzione ai nostri problemi: internet.
Se prima "l'hanno detto in televisione" era l'argomento conclusivo di qualsiasi dibattito, adesso, "l'ho letto su internet" l'ha sostituito e quasi superato come metro di attendibilità.
Perché sconosciuti poco qualificati su internet ci sembrano sempre più eminenti dei quattro vecchi amici al bar.
E se a leggerlo così, l'idiozia sembra evidente e palese, in realtà tutti, più o meno ne siamo vittime.
È come quando scegli il medico solo in base alle esperienze degli altri.
Stesso principio.
Alla fine, quindi, a pensarci non siamo poi così evoluti, rispetto ai greci, anzi.
Google, come gli oracoli, è solo un tramite, un tramite per metterci in contatto con qualcuno di superiore, sia esso una divinità o un'eminente esperto, e spesso ci dimentichiamo che, come lo erano gli oracoli, anche quelli che scrivono le risposte che troviamo su google sono scritte da umani; umani che spesso ne sanno ancor meno di noi e dei nostri amici.
Eppure, continuiamo e continueremo a farlo perché certe volte scrivere su google "come essere felici" non ci sembra poi un'idea tanto malvagia;  di certo costa meno dello psicologo!
Poi, a pensarci, certe volte i consigli che dà o meglio, che ci danno attraverso Google non sono poi nemmeno così malvagi, sono semplicemente banali.
Del resto, non ci voleva mica Google a dirmi che devo credere in me stessa e bere 2 litri d'acqua al giorno.... me lo diceva mia nonna quando l'unica banda che conoscevo era quella che suonava in divisa.
Ma, se me lo dice Google, forse ci credo un po' di più.

Problemi del Terzo Millennio

Oggi mi è arrivato un pacco per posta che mi ha letteralmente risollevato la giornata.
Del resto l'avevo scritto su twitter: "lo shopping on line rovina le vite".
Le rovina perché è comodo, facile e non ti rendi conto di quanto spendi.
È un po' come le slot machine (credo) che tu stai lì e giochi e giochi e compri e compri e BAM, spendi un patrimonio.
Questa, signori, è una vera e propria piaga sociale, più del nepotismo, più dell'asocialità da social network.
Il mondo andrà in malora perché quelli del governo, un giorno, scopriranno che su ASOS ci sono le spedizioni gratuite, su Zalando il reso gratuito, su F21 delle cose talmente adorabili che non sai più che fare, perché lo sai che quegli shorts geometrici non te li metterai pure mai, ma ne hai bisogno. (Che poi quelli del governo già usino i soldi nostri per cazzi loro, vabbè!)
Insomma, fare shopping online è una figata, e io ho un problema, non so se s'era capito.
Le mie amiche si dividono tra quelle che sono state contagiate (amicabionda, amicapink se leggete CIAO!) e quelle che sostengono che lo shopping nei negozi, ai saldi, tra la folla, le ascelle pezzate, l'euforia e le code che manco al concerto di Van Halen non potrà mai essere superato.
Sarà che io vivo in un paesino DEMMERDA bucolico in cui l'unico negozio di vestiti sta fermo al 2008 con le magliette coi loghi e jeans a vita bassa, ma io tutta questa mancanza di andare in negozi con commesse che o c'hanno il dente avvelenato, o ti si accollano onestamente non la sento.
Io ci provo eh, ho provato a disintossicarmi, ho provato a lasciare il mio letto e ad andare là fuori, nel mondo reale, tra le persone che non hanno ancora scoperto la comodità di Paypal, ma non è andata poi tanto bene.
Forse anche perché per arrivare in una civiltà in cui valga la pena alzare il culo per comprare devo farmi 1 ora di autobus e 2 di treno e poi "non c'è la mia taglia" o ma perché devo spendere 48 euro per del polietilene che su ebay mi vendono a 10"?
Sarà che ho problemi io.
Sarà che per chi impara a volare tornare a camminare lottando con ragazzine isteriche per una maglia di petrolio è difficile.
E la shopping bag che pesa, e le luci al neon dei camerini che non ti fanno capire bene se sei un cesso o stai da dio, e la fila alla cassa, e le buste di cartone demmerda che si spezzano, e lo stress e NO!
Io dico basta! Anche perché poi, voglio dire, tutto sto bordello e non è che torni a casa con le Valentino o con quella bella Prada.
Petrolio per petrolio, lo compro online e vaffanculo.
E lo so che i più scettici diranno:
"Eh ma devi pagare prima!"
"Eh ma se poi non ti arriva?"
"E se poi ti va male?"
"Eh ma poi devi aspettare che ti arrivi."
Allora 1) io di ordini ne ho fatti, tanti, troppi, e mai in vita mia ho avuto (ancora) una fregatura, almeno in questo senso! Ovvio che se mi ordini su un sito in cui la pagina di pagamento sembra fatta da un 5enne e non c'ha il lucchettino di sicurezza (in alto a sinistra, dove sta l'indirizzo) e poi ti fregano i soldi non ti devi meravigliare. Ma questo disgraziato 21esimo secolo na' cosa buona c'ha dato: paypal, che è comodo, facile, sicurissimo e non devi mettere i dati di carta in giro. Usatelo, gente, usatelo!
2) L'attesa è vero, è innegabile (soprattutto se ordini fuori dall'europa, come durata raggiungiamo anche il periodo di quaresima) ma a me non è mai pesata tantissimo, anzi, quando sento arrivare il postino ora sono felice come se mi stesse venendo a portare l'invito del ballo a corte (sono superficiale, allora?) e quando poi lo apro torno una bambina di 5 anni a Natale.
Ovvio, gli scettici forse rimarranno scettici, ma sono sicura che se provaste anche voi, ne verreste risucchiati (che non so se è un bene o un male).
Magari, un giorno, se avrò la forza e siete interessati, potrei anche farvi una guida allo shopping online, con tutti i siti che ho provato (so' assai) come mi sono trovata ecc.
Sa di fatto comunque, che il mio problema resta ed è grave.
Perché io cm diceva la cara Carrie Bradshow, shopping is  was my cardio.
Magari un giorno mi ritroverò con millemila vestiti che non potrò più mettere perché avrò trovato anche una compagnia disposta a portarmi l'aria d'asporto e ingrasserò 25 chili.
Ma se non altro su internet le XL ci sono in abbondanza e non dovrei nemmeno sentirmi giudicata da commesse bacchettone che pensano che Dio si sia fermato ad una 40.

martedì 19 novembre 2013

Apologia Liceale

La magia del liceo la capisci solo quando ormai è finito, quando i grandi drammi che sembravano averlo caratterizzato si rivelano per quello che sono: scaramucce di poco conto. Sono invece proprio le piccole cose a mancarti, quei piccoli fattori che, nella grande e spesso caotica economia delle giornate scolastiche, non prendevi nemmeno in considerazione, reputandole scontate e quindi non importanti.
Invece sono proprio quelle piccole cose (le file alle macchinette, le botte che gli facevi dare dai compagni più grossi quando puntualmente si bloccavano, i cambi dell'ora confusionari, durante i quali speravi sempre che il prof mancasse perché "cazzo, cazzo non so niente" a mancarti.
Sono queste, le cose belle del liceo: i momenti di confessione in bagno, do cazzeggiamento sulle scale, gli incontri con i bidelli, le chiacchierate a prima mattina quando entravi prima e trovavi già gente in classe pronta a lamentarsi di tutto, i libri di latino scritti fitti fitti, i suggerimenti mandati sotto ogni forma anche a quelli che più ti stavano sul cazzo, perché "siamo una classe e dobbiamo aiutarci".
Eh già, la classe, questa piccola comunità costituita da gente eterogenea messa insieme senza nessun criterio logico, sconosciuti che si ritrovano a vivere insieme 5 anni importanti, che si osservano crescere a vicenda e che possono sempre farsi fare figure di merda a vicenda per tutti gli episodi imbarazzanti che sanno l'uno dell'altro.
Non avevo mai pensato che potesse mancarmi la mia classe, e invece so' che mi mancherà.
Perché il liceo non è una semplice scuola, ma un vero percorso di vita: ti prende bambino e ti cambia, ti apre la mente, gli orizzonti, perfino il cuore, e tu ti ritrovi a sorridere ricordando Platone che studiavi quando stavi vivendo il tuo primo amore e della teoria delle idee, oggettivamente, te ne fregava molto poco.
Se chiudo gli occhi me lo ricordo come se fosse ieri il mio primissimo giorno di quarto ginnasio: la paura, l'eccitazione, le aspettative, la voglia di cambiare, di fare nuove amicizie, di provate a studiare e farti piacere le materie.
Parte di me ha paura di perderli, tutti questi ricordi, che adesso sono ancora limpidi e vivi.
Io non voglio dimenticare niente: le risate quando si declinava kakon in greco, l'inventiva nelle interrogazione di mate, le interrogazioni di italiano andate così bene che dopo ti sentivi Dio.
Io non voglio dimenticare, perchè non c'è cosa che ho odiato e maledetto più di questa scuola ma so che, tornassi indietro, lo rifarei.
Perchè da quell'abozzo di domna che sei a 14 anni, il liceo ti trasforma in una quasi ventenne con idee ancora confuse, ma più definite e, soprattutto, in una con carattere.
Non avrei mai pensato di dirlo ma, ora come ora, nonostante abbia finito (finalmente) il tutto e perciò non avrei motivo di andarci domani, ultimo giorno di 3 liceo, parte di me vorrebbe salire ancora quelle scale, entrare in quella classe, sedermi per l'ultima volta vicino alla mia compagna di banco e vivere il tutto come se fosse un giorno normale, come se non fosse tutto finito.
È vero: ciò che si ama davvero, spesso si finisce ad odiarlo contemporaneamente e, credo, che questa sia la cosa che mi sia successa con il liceo.
Perché il liceo non ti uccide, ti fortifica.
E ti lascia un'impronta talmente grande che solo quando l'hai finito, a distanza di anni, puoi vederla e comprenderla appieno.
Il liceo è stato la mia vita, croce e delizia per 5 lunghissimi anni, in cui ho sperato con tutta me stessa che finissero al più presto.
E ora mi trovo ad agrapparmici, perché al liceo i professori sanno ancora il tuo nome e se ti assenti le amiche ti mandano i compiti via messaggio ed è tutto così definiti, sicuro che viene svalutato.
Invece c'è tanto, dietro a questo.
Talmente tanto da poter dire che, anche se forse nn posso definirli gli anni più belli della mia vita, quelli del liceo sono stati quelli più importanti finora e quelli di cui ho già nostalgia.
Quelli che domani, mi porteranno ad andare a scuola, per sentirmi "una liceale" (e un'adolescente) per l'ultima volta.

*(Questa roba l'ho scritta la notte del penultimo giorno. Ancor prima della maturità. C'avevo visto giusto.)

Come spiegarmi con una metafora nerd...

"Inconstante" non penso ci sia un aggettivo che mi definisce meglio.
Sono incostante nelle emozioni, incostante negli affetti, incostante nei desideri e negli impegni, ma non perché non voglia creare qualcosa di concreto, di duraturo, ma piuttosto perché se potessi scegliere solo un altro aggettivo per descrivermi, quello sarebbe "effimero".
No, non è egocentrismo o vittimismo il mio: tutti siamo effimeri, certo, ma io credo di esserlo più di tutti...
Più di tutti perché la voglia di diventare qualcos'altro pur di non essere me mi ha portato a reinventarmi, a cambiarmi, talmente tante volte che non credo sia rimasto più qualcosa delle vecchie me, e dubito fortemente che rimarrà qualcosa di quella che sono ora.
È come se fossi un hard disk, un hard disk che svuoto e riempio ripetutamente senza fare alcun back-up dei dati, perché preferisco sostituirli, crearne di nuovi, di migliori anche a costo di essere poi, alla fine, sempre ed inesorabilmente "vuota" infondo.
Non so quante volte sia effettivamente cambiata in vita mia, quante mute abbia fatto, quante metamorfosi abbia subito, so solo che mi sembrava di essere meglio prima, quasi come se in me si fosse invertito il processo logico/naturale di bruco-crisalide-farfalla.
Non mi piace affatto questa versione 2.0 di me ma non so' se ho la forza e la voglia necessaria per un altro aggiornamento software che riformatterebbe di nuovo il mio hard disk, cancellandone nuovamente tutti i dati.
Quando ero bambina e iniziavo un nuovo quaderno a scuola, promettevo sempre a me stessa di essere ordinata, di essere perfetta, di non usare mai la scolorina etc...
Pensavo seriamente di poter evitare completamente gli errori, di avere un quaderno perfetto, anzi IL quaderno perfetto.
Poi però puntualmente sbagliavo e allora strappavo le pagine che mancavano alla fine del quaderno per finirlo più in fretta, e iniziare uno nuovo.
Alle medie, ormai rassegnata, avevo i quaderni in disordine, pieni di cancellature, vuoti.
Alle superiori poi ho proprio rinunciato ad avere un quaderno; scrivo tutto su fogli volanti, sparsi, disordinati come i miei pensieri confusi.
E in tutto questo caos c'è solo una cosa sempre certa, un minimo comune denominatore, esprimibile solamente con un pronome personale soggetto di sole due lettere che tante volte ha cambiato identità ma che alla fine resta sempre lo stesso, inesorabile: Io.

Welcome to my mind...

Entrare su questo blog mi fa venire i sensi di colpa, perché rappresenta la prova tangibile della mia incostanza.
Io ci tengo a questo blog, eppure, nonostante non abbia poi niente di meglio da fare, non riesco a dedicarmici come vorrei.
Perfino la roba che pubblico, non mi piace.
Rileggendo i miei miseri 10 post pubblicati, infatti, mi sono resa conto di quale abisso qualitativo ci sia da quello che scrivo per me e quello che scrivo per il blog.
Io, dovete sapere, scrivo sempre.
Sempre, anche se non pubblico.
Del resto, un po' credo di esserci nata scrittrice perché, da quando ho memoria, mi ricordo con una penna in mano a inventare storie assurde su principesse arcobaleno (ho ritrovato un quaderno di quando facevo la seconda elementare con una decina di racconti minchiata).
Eppure, mi rendo conto, che quando devo pubblicare un post sul blog alla fine sono sempre frenata, e me lo salvo nelle bozze.
A dire il vero, al netto finora ho 10 post pubblicati e trentasei (36) bozze.
Roba che la proporzione è improponibile.
E anche la qualità a dire il vero.
Sono ben cosciente di non essere Kafka, ma è inutile negare il fatto che quello che scrivo e non pubblico è sicuramente meglio (ci vuol poco) di quello che scrivo per pubblicare.
Una delle poche regole base di uno scrittore, secondo me, è non mettere troppo di se stessi in quello che si scrive, perché altrimenti non si ha il coraggio di pubblicarlo.
Beh io, quando scrivo per me, sono senza filtri.
E' come se andassi dal confessore.
Molte volte l'argomento dello scritto non è nemmeno pragmatico (molte sono solo seghe mentali) eppure ho paura che di me si capisca troppo.
Forse è vero, fondamentalmente sono cagasotto, ma il pensiero di mostrare me stessa così tanto, anche su internet, è una cosa che mi fa venire la tachicardia anche solo a pensarci.
Period.
Eppure, oggi, mentre rileggevo i post che non ho pubblicato mi sono resa conto che forse è questo il motivo per cui chi mi legge non si sente poi così tanto ispirato a parlarmi, a commentare, a condividere.
Perché sostanzialmente viene fuori una persona fittizia cosa che io, credetemi non sono.
Ecco perché ho deciso di pubblicare quei post, perché anche se forse non cambierà niente, lo devo a quei 1000 stronzi che mi hanno letto ma soprattutto lo devo a me stessa.
Si chiama onestà intellettuale, si chiama avere le palle finalmente di esporsi.
Certo, il tono del blog non sarò esattamente quello che volevo originariamente, ma del resto, la maggior parte dei miei progetti va in malora.
Non voglio mettere barriere anche qui, nel mio cantuccio, lo faccio già troppo nella vita reale.
Quindi, d'ora in poi, questa sono io, e questo è il mio Moleskine.
Grazie a chi mi legge.

Sempre vostra,

Stonza

giovedì 29 agosto 2013

All that you can't leave behind.





Se c'è stata una costante nella mia vita, è il fatto che molti di quelli che amo, finiscono con l'andare via.

E non parlo di quelli che muoiono.
No, per quelli, nel bene e nel male, te ne fai una ragione.
Parlo di quelli che scelgono di andare via o che sono costretti da questa velocista che ci ostiniamo a chiamare vita.
Come Wendy con Peter Pan.
Sono loro a farti più male.
E ti fanno male perché, per quanto lo desiderino, non possono portarti con sé.
Perché nella valigia non ci vai e, forse, dopotutto, nemmeno vuoi andarci.
Perché non si può vivere nella scia degli altri o almeno, io non potrei mai.
Quindi resti, inevitabilmente, indietro.
E ti senti un po' egoista, perché sai che dovresti essere felice, incoraggiante, di supporto in questa loro nuova fase della vita.
E ci provi, ma infondo ti chiedi perché partano loro e tu no.
Ho sempre avuto la (s)fortuna di creare legami molto forti con qualcuno proprio poco prima che quel qualcuno dovesse partire, andarsene.
Mi è successo con un'amica alle elementari, con un'altra a metà delle superiori, con il mio primo quasi amore e sta succedendo adesso, con altre persone che ho conosciuto da poco (relativamente) e che devono partire, crescere, andare avanti con la loro vita.
Alcuni potrebbero dire che sia meglio così, che infondo, se conosci qualcuno da poco, per quanto tu gli voglia bene, riesci a superare il distacco più velocemente.
Io non sono proprio d'accordo.
Io sono per la qualità del tempo che si passa con qualcuno, non per la quantità.
Conosco persone dall'asilo, alcune mi stanno anche sinceramente simpatiche e ci ho passato volentieri una considerevole parte del mio tempo eppure, ed è terribile, preferirei partissero queste piuttosto che gente che conosco da un anno, ma che in un anno è riuscita a darmi infinitamente di più di quanto quelli che conosco da sempre abbiano mai saputo darmi.
E' come se il mio tempismo del cazzo mi perseguitasse anche in questo.
Perché queste persone che conosco "da poco" mi erano magari sempre state sotto il naso ma io, con le mie barriere che proteggono (male) ma isolano (tanto) non mi sono mai sprecata a conoscerle.
E so che non posso prendermela tanto a male perché, aimè, io sono così.
Ma fa male uguale.
E ti viene da chiederti perché ora, perché adesso?
Perché la vita deve cambiarti le carte in tavola proprio quando aveva cominciato ad andare meglio?
Perché il crescere deve strapparti cose o persone che hai appena incontrato ma che già ami?
La verità è che non c'è risposta.
Perché la vita non è giusta e, forse, come dicevano Schopenhauer e Nietzske, non è altro che caos informe.
Un caos che è tanto inquietante, quanto bello ed eccitante.
Mai, come questo momento, ho capito quello che intendeva Nietzske con l'eterno ritorno; non è tanto il susseguirsi ripetitivo di eventi casuali, o di errori dettati dalla stupidità umana; è semplicemente il fatto che, alla fine, anche tu finisci per fare la stessa cosa che ti ha ferito e quelli che ferirai un giorno si ritroveranno nella tua stessa situazione e, cosa altamente probabile, finiranno per fare lo stesso.
E così via, all'infinito.
In eterno.
Perché le scelte sembrano tante ma alla fine sono sempre poche, quasi binomi, coppie d'opposti: partire/restare; amare/odiare; dimenticare/ricordare; maledire/perdonare.
E va bene così.
Perché ci sono tante cose che NON potrai mai lasciare indietro e una di queste, per quanto melenso possa sembrare il tutto, è proprio l'amore.
Se non credete a me, credete agli U2; perché anche una canzone che si chiama "Walk On" (Vai avanti.) parla di quello che porti, non di quello che lasci.
Perché quello che porti è l'importante, quello che ti rende chi sei, quello che ami nel senso più ampio e profondo del termine.
E, anche se sembra strano, non è solo zavorra, è ciò che ti fa da ancora, da radice, da base per costruire ciò che diventerai.
Quello che non ti fa perdere.
La forza non è solo ciò che ti serve per lasciarti tutto alle spalle, ma anche e soprattutto ciò che è necessario per portarti dietro quello che non riesci a dimenticare.
Essere forti significa avere un grande bagaglio di casini e continuare a provare, a vivere non lasciandoti condizionare dal passato, ma ricordarlo, onorarlo.
Perché rinnegare quello che sei stato non farà altro che portarti ancor più lontano dal diventare chi vuoi essere.
Perché quello che sei stato è la base su cui hai costruito chi sei ora.
E quindi, adesso, so bene che, quando sarà il mio turno di partire, non dovrò pensare a quanto sarà terribile dover lasciare quelli che sono rimasti e che ci sono stati sempre, ma dovrò semplicemente trovare il modo di portarli con me.
"Le persone che ci amano non ci lasciano mai veramente".
E se non avete creduto a me, non avete creduto agli U2, spero almeno crediate a Sirius Black.

Sulla mia pelle.




Oggi, 29 Agosto 2013, è un giorno molto importante. 
E' il giorno in cui la bitch ha deciso seriamente di farsi un tatuaggio.
C'avevo già pensato. 
Ci penso da un po', a dire il vero, accarezzando l'idea di cosa potrei farmi, imprimermi a vita sulla mia pelle. 
La verità è che non ho mai avuto le palle di farlo davvero. 
Perchè non c'è niente che mi spaventa di più del per sempre. 
Se decidi di scriverti qualcosa addosso, che sia in fronte o nel posto più remoto del tuo corpo, vuol dire che significa qualcosa. 
Non credo nei tatuaggi "estetici", la gente che alla fine si tatua davvero, non sceglie il primo tribale a cazzo o il simbolo dell'infinito che ormai è più diffuso dell'iphone. 
Quelli che si tatuano davvero, scelgono qualcosa che conta e che conterà per sempre. 
Perchè sulla nostra pelle rimangono comunque tatuaggi, segni invisibili dei baci di chi ti ha amato, delle cicatrici di chi ti ha amato un po' meno, delle carezze di quelli che ti hanno consolato. 
La pelle è lo "scudo" inesistente con cui noi veniamo a contatto con il mondo. 
E, anche se non ce ne accorgiamo, assorbe tutto: sapori, odori, lacrime. 
I tatuaggi che ti fai sono semplicemente segni che per te sono talmente importanti da volerli far vedere, se non agli altri, almeno a te stesso. 
Sono moniti, promesse, ricordi. 
Ce li avevi già sotto la pelle. 
Tatuandoti li porti semplicemente in superficie. 
Sulla mia pelle vorrei scrivere tante cose: le frasi dei libri che mi hanno cambiata, i nomi di quelli che amo, le canzoni che mi hanno salvata, i valori in cui credo e in cui vorrei continuare a credere. 
Per sempre. 
E il per sempre è un tempo straordinariamente lungo. 
Per questo bisogna discernere, scegliere bene, fare una cernita, per capire quello che è veramente importante.
Quello che vuoi portare con te. 
Per sempre. 
Sulla tua pelle. 
E allora si fa come quando si svuota l'armadio prima di trasferirsi, di cambiare vita; si svuota tutto il contenuto e lo si rovescia sul letto. 
Lo si osserva, se si è incerti si prova qualcosa e si sceglie quello che ti rappresenta di più, quello che ti sta meglio addosso, e ci si fa forza per liberarsi di quello che ormai non ci sta più, per quanto ci siamo affezionati. 
L'unico problema è che svuotare il cuore è molto più difficile e doloroso che svuotare un armadio. 
C'è molta, molta più roba e, se lo dico io, è grave. 
La pulizia dell'armadio l'ho già fatta all'inizio di questa interminabile estate. 
Ho tolto più cose di quante volessi, per non avere zavorra.
Alcune cose mi mancano. 
Altre le ho già dimenticate. 
Il cuore, tutto, non sono riuscita a svuotarlo. 
Non ce la faccio. 
Magari un giorno, quando e se troverò qualcuno che mi aiuterà a farlo, avrò il coraggio di andare fino in fondo.
Per ora ho scremato un bel po' la superficie lasciandola grezza e non levigata. 
E da tutto ciò è emersa una frase, una frase di una canzone "vecchia" che mi ha salvato, quest'estate.
Una frase che è un monito, un'invito a vivere nel mondo reale, a non lasciarmi andare mai, un monito per ricordarmi che la devo smettere di pensare tra le nuvole e vivere qui, nel casino, tra le cose concrete, reali, vere.
Perché la gravità pesa e l'impatto fa male, ma a volte serve. 

"Snap back to reality... Op there goes gravity" 

Sotto al cuore, sulle costole, dove fa più male.